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1. ORIGINE ED EVOLUZIONE DELLA LEGISLAZIONE DEI BENI
CULTURALI IN ITALIA
1.1.
La legislazione italiana sulle “Antichità e
belle arti”, dall’Unità alla Seconda Guerra
Mondiale.
1.1.1. I controlli degli Stati
pre-unitari sulle cose d’antichità e d’arte.
Nella città di Roma, dove più che in ogni
altro luogo si raccoglievano capolavori d‘arte e
testimonianze del glorioso passato, si ebbero, sin
dal XVII secolo, le prime e più significative forme
d’intervento del Governo Pontificio per impedire la
distruzione e la dispersione delle ricchezze
dell’arte e dei resti archeologici: vari editti
introdussero un controllo di polizia sulla
conservazione di cose d’antichità e d’arte,
particolarmente per quanto riguarda gli scavi
archeologici e l’esportazione.(Editto del
cardinale Albani, 1726; editto del cardinale
Valente, 1750; editto del cardinale Doria Pamphili,
1802, che promulga il chirografo di Pio VII). E’
però nell’editto del cardinale Pacca
sugli
scavi e sulla conservazione dei monumenti,
emanato nel 1820, che si suole vedere il primo ed
organico provvedimento di protezione
artistica e storica, e di catalogazione degli
oggetti di antichità ed arte delle Chiese.
E’ interessante rilevare come l’editto indichi i
“costanti e principali motivi” della legislazione
sui monumenti e le cose d’arte: (1) l’attrazione che
spinge gli “stranieri ad ammirarle” [turismo
culturale]; (2) l’”erudita curiosità degli
antiquari” [scienza storico-archeologica e storia
dell’arte]; (3) lo stimolo alla “nobile emulazione
di tanti artisti” [formazione degli artisti].
L’editto del cardinale camerlengo Pacca, inoltre:
istituisce una amministrazione degli scavi,
monumenti e cose d’arte, sia centrale
(Commissione di belle arti) sia periferica
(Commissioni ausiliarie nelle provincie), dotata di
poteri ispettivi e titolare del potere di rilascio
dei licenze di scavo e di esportazione; impone a
tutti i “pubblici stabilimenti … tanto ecclesiastici
che secolari … ove si conservano raccolte di statue
e di pitture, musei di antichità sacre e profane, e
anche uno o più oggetti preziosi di belle arti
….[di] presentare una esattissima distinta nota
degli articoli sopra espressi in duplo
sottoscritta”.
Al provvedimento del cardinale Pacca si ispirano
gli altri Stati italiani, primo fra tutti il Regno
di Napoli, che già nel secolo precedente aveva
disciplinato gli scavi archeologici a Pompei.
La maggior parte di questi interventi legislativi
pre-unitari ebbe natura cautelare, tesa ad evitare
la dispersione e la fuoruscita del patrimonio
archeologico e artistico. Ma furono anche previste
regole per la conservazione e il restauro dei beni e
modalità di accertamento della consistenza dei
beni.
Lo Stato della Chiesa si era anche preoccupato di
assoggettare a vincolo fidecommissario le collezioni
delle famiglie aristocratiche romane (Motuproprio di
Pio VII del 1816, su suggerimento di Antonio Canova).
1.1.2. Beni artistici e storici e
libertà economica. Pubblicizzazione dei beni degli
ordini religiosi e delle opere pie.
Il nuovo Regno d’Italia unificata, portatore di
una politica economica liberista, non manifestò
affatto una propensione ad occuparsi della
protezione dei beni artistici e storici
extrademaniali, attraverso un’azione pubblica che
necessariamente doveva operare in funzione
limitativa delle iniziative individuali e della
proprietà privata.
Lo Statuto Albertino era fortemente influenzato
dall’ideologia liberista che riteneva un abuso ogni
ingerenza pubblica che condizionasse la
commerciabilità dei beni di proprietà privata:
“tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono
inviolabili”.
Il conseguimento dell’unità d’Italia non determinò
affatto uno sviluppo della tutela delle antichità e
belle arti di proprietà privata, ma, al contrario,
costituì una pericolosa inversione di tendenza
rispetto al blocco della dispersione del patrimonio
culturale, cautelarmente introdotto nella prima
metà dell’Ottocento.
Nell’imponente opera d’unificazione legislativa
del 1865 non furono, infatti, comprese norme sul
patrimonio artistico-storico e finirono
sostanzialmente col restare in piedi le norme che
erano in vigore nei preesistenti ordinamenti dei
singoli stati pre-unitari.
Questa validità venne assicurata, anche per superare
incertezze manifestatesi nella prassi amministrativa
e nella giurisprudenza, con la legge 28 giugno
1871 n. 286, la quale stabilì (art.5) che
“finchè non sia provveduto con legge generale,
continueranno ad avere vigore le leggi ed i
regolamenti speciali attinenti alla conservazione
dei monumenti e degli oggetti d’arte”. La stessa
legge, dopo avere esteso alla provincia romana le
disposizioni del Codice civile del 1865 sulla
abolizione dei fidecommessi e dei maggioraschi,
manteneva (art.4) sino a una apposita successiva
legge speciale, indivise e inalienabili le gallerie
ed altre collezioni d’arte o di antichità delle
famiglie aristocratiche romane.
Altre specifiche leggi e provvedimenti
amministrativi disciplinarono l’inclusione
nell’apparato dello Stato unitario dei musei e
monumenti delle province toscane (R.D. 7 giugno 1866
nn. 2991 e 2992), del sito e della scuola di
archeologia di Pompei (R.D. 13 giugno 1866 n. 2957)
e in generale dei monumenti e musei degli ex-Stati
delle altre provincie (R.D. 7 agosto 1874 n. 2032).
Di fronte alle difficoltà di amministrare con
graduale uniformità la composita eredità dei
patrimoni culturali degli Stati pre-unitari e alle
resistenze localistiche a spostare nei capoluoghi
del nuovo Regno d’Italia collezioni d’arte ed
antichità (o singoli capolavori), lo Stato unitario
non si pose il problema di istituire un museo
centrale della nazione italiana riunificata.
Nel Regno d'Italia, percorso da potenti flussi
migratori, è il tempo dell'espansione delle città e
della speculazione edilizia. Peraltro i beni
immobili degli ordini religiosi, via via soppressi,
entrano a far parte del demanio e sono posti sotto
l’amministrazione del Ministero della Pubblica
Istruzione. I beni delle opere pie sono laicizzati e
passano sotto la vigilanza prefettizia.
Aumenta, quindi, per effetto della politica
anticlericale, la massa dei beni culturali di
proprietà pubblica, proprio mentre il massimo
liberismo economico rimuove, nel codice civile del
1865 (Roma esclusa), ogni regime limitativo della
proprietà privata, ivi compreso l’istituto
(feudale) del fedecommesso, istituto
che aveva avuto il merito di conservare inalterate,
senza smembramento tra gli eredi di casate
aristocratiche, pinacoteche e collezioni.
Lo Stato Italiano, in seguito all'unificazione
del 1861, mantenne, quindi, pressoché inalterato –
in via transitoria - il disomogeneo corpus
legislativo degli Stati preunitari nel campo della
tutela dei beni culturali; e, per la difficoltà di
conciliare l’ideologia liberale con l’interesse
pubblico alla conservazione del patrimonio
culturale, adottò episodiche disposizioni
transitorie o d’urgenza, quali quella che previde la
possibilità di espropriare i monumenti appartenenti
a privati, se mandati in rovina per incuria (legge
n. 2359 del 1865); quella che previde l’alienazione
delle cose d’arte e d’antichità a solo vantaggio
dello Stato (legge n. 1461 del 1883).
La legislazione dei primi quaranta anni di unità
nazionale è caratterizzata, quindi, dal permanere di
una disciplina territorialmente differenziata dei
beni culturali (alienazione all’estero delle cose
d’arte vietata solo nel Centro-Sud, divisibilità
delle collezioni d’arte ex-fidecommissarie vietata
solo a Roma, ecc.) e dalla tendenziale piena
libertà dei proprietari privati di fare qualsiasi
uso delle cose d’arte. [A proposito della
transitorietà delle disposizioni relative alle
raccolte artistiche ex-fidecommissarie vale la pena
di segnalare che l’art. 129, comma 2, del vigente
“Codice dei beni culturali” n. 42 del 2004 mantiene
ancora in vigore la sopracitata legge n. 286 del
1871 e la successiva legge n.1461 del 1883].
1.1.3. La legislazione sulle “
antichità” e “ cose d’arte”, nell’età
giolittiana.
Negli ultimi venti anni dell'Ottocento però, si
sviluppa una crescente attenzione verso la
protezione del patrimonio artistico nel nuovo Stato.
Solo nel 1902, dopo più di trent'anni dal progetto
del Ministro Correnti, sarà promulgata una prima
legge nazionale di tutela: è la legge 12 giugno 1902
n. 185 (legge Nasi) istitutiva del “Catalogo
unico” dei monumenti e delle opere di interesse
storico, artistico e archeologico di proprietà
statale; poi modificata e sistematizzata con la
legge 20 giugno 1909, n. 364 (legge Rosadi-Rava,
dal nome, rispettivamente, del parlamentare relatore
e del ministro).
La moderna disciplina sui beni culturali deve
alla legge Rosadi e al suo regolamento
applicativo 30 gennaio 1913 n. 363 (tuttora in
vigore) i propri principi fondanti:
- stabilisce il principio dell'inalienabilità
(e della manomissione) del patrimonio culturale
dello Stato e degli enti pubblici e privati,
(beni di “interesse storico, archeologico o
artistico”);
- afferma la possibilità per la pubblica
amministrazione di sottoporre a vincoli di
tutela opere di proprietà privata considerate di
“importante interesse”; si tratta dell’istituto
della “notifica”, forma di controllo diretto sul
bene da parte dello Stato, che è chiamato ad
esprimere un parere riguardo ad ogni possibilità di
gestione da parte del proprietario dello stesso;
- facoltizza la pubblica amministrazione ad
espropriare opere di proprietà privata che è
necessario acquisire al sistema dei monumenti e
musei pubblici;
- istituisce la vigilanza sull'esportazione e
sulla circolazione dei beni privati (con facoltà
dello Stato di esercitare il diritto di prelazione);
- promuove la pratica sistematica della ricerca
archeologica;
- delinea compiutamente un'organizzazione e
un'amministrazione, centrali e periferiche, deputate
alla conservazione e alla tutela dei beni culturali
(sovrintendenze ai monumenti e sovrintendenze
archeologiche e alle gallerie).
Il fine che la legge Rosadi si propone è
la ricostruzione e il mantenimento della memoria
storica di un popolo, ossia di quell'insieme di
testimonianze esemplari, cioè uniche e irripetibili,
a cui si attribuisca preventivamente un pregio
estetico e che illustrino la cultura di un popolo,
dalla sua genesi ai suoi sviluppi più o meno
recenti. II patrimonio è riguardato dunque come
mezzo in vista di un fine conoscitivo, del quale lo
Stato deve farsi garante, attraverso politiche
mirate di protezione e di diffusione delle
conoscenze acquisite.
Con il regio decreto n. 1889 del 1923 è
sottolineata l'urgenza di compilare, per la
conoscenza e per la protezione, un catalogo dei
monumenti e delle opere d’interesse storico,
artistico e archeologico di proprietà statale.
Con la legge n. 204 del 1922 (ministro Benedetto
Croce) sono poste le basi della tutela delle
“maggiori bellezze naturali”.
1.1.4. La legislazione organica del
periodo fascista, sulle cose d’interesse artistico o
storico, sugli archivi e sulle bellezze naturali; ed
interventi di promozione delle attività culturali.
Nel 1939 si giunge finalmente alla principale
riforma del Novecento in tema di tutela del
patrimonio culturale. Se ne fa promotore e garante,
nel governo fascista, il Ministro dell'Educazione
Nazionale, Giuseppe Bottai.
Vengono, in primo luogo, affrontati, con la legge 22
maggio 1939 n.823, i problemi della
riorganizzazione periferica, distribuendo le
sovrintendenze (revisionate territorialmente)
sulla base delle prevalenti specializzazioni di
archeologi, architetti e storici dell’arte
(sovrintendenze alle antichità , ai monumenti, alle
gallerie) e rinsaldando l’autorità
dell’amministrazione centrale.
Nel corpus legislativo della riforma Bottai -
fondato sulla 1egge 1 giugno 1939 n. 1089 (norme
in materia di tutela delle cose di interesse
storico, artistico, archeologico) e sulla 1egge
29 giugno 1939 n. 1497 (norme in materia di
protezione delle bellezze naturali) - rimasto
in vigore, senza variazioni o adattamenti, sino al
Testo unico del 1999, emerge una prospettiva ampia e
articolata riguardo al ruolo delle cose culturali
e alle bellezze paesistiche. Coeva alla
riforma Bottai è la legge 22 dicembre 1939 n. 2006
che stabilisce il nuovo ordinamento degli Archivi
del Regno (all’epoca incardinati nel Ministero
dell’Interno).
Nelle intenzioni di Bottai il patrimonio storico,
artistico, culturale e ambientale è il centro
intorno a cui si costruisce e si raccoglie l'identità
e l'unità di un popolo.
La riforma Bottai riprende la legislazione
precedente e la ricompone su un impianto razionale,
integrandola con criteri fino allora non contemplati
o trascurati.
La legge n. 1497 del 1939 sulla Protezione delle
bellezze naturali introduce una disciplina organica
della protezione del paesaggio, inteso come
«bello appartenente alla natura».
Alle due leggi principali della riforma si
aggiunge, nel 1942, la prima legge nazionale di
pianificazione urbanistica e territoriale.
Infine nel 1942 il Codice civile, agli
articoli 822 e 824, si ricollega alla riforma Bottai
e include nel demanio dello Stato gli
immobili riconosciuti di interesse storico,
artistico e archeologico e le raccolte di musei,
pinacoteche, archivi e biblioteche.
La legge n. 1089 del 1939, Tutela delle cose
d’interesse artistico o storico, delinea l'oggetto
della tutela, sia esso di proprietà pubblica o
privata e precisa che vi rientra “tutto ciò che
presenta interesse artistico, storico, archeologico
o etnografico, nonché le testimonianze di civiltà ,
tra cui monete, documenti, libri, stampe, codici di
rarità e pregio, e infine ville, parchi e giardini
artisticamente e storicamente rilevanti”. Fa inoltre
riferimento alla storia politica e militare, alla
letteratura, all'arte e alla cultura per indicare i
beni immobili di cui lo Stato deve curare la
protezione.
La legge n. 1089 del 1939 mette a fuoco
tutti i principali concetti-chiave in materia di
tutela del patrimonio:
la procedura del vincolo sui beni privati
riconosciuti come di pubblico interesse, attraverso
l'atto della notifica;
le disposizioni per la conservazione,
l'integrità e sicurezza dei beni;
la “pubblica godibilità ”, nei termini di
ammissione alla visita da parte del pubblico, sia
per i beni statali, sia per quelli privati coperti
da riconoscimento del pubblico interesse;
l’eventuale appartenenza delle opere d'arte
contemporanea al patrimonio artistico dello
Stato, purché gli autori non siano viventi o
l'esecuzione di queste risalga ad almeno cinquanta
anni.
I concetti e i termini base dell'odierna disciplina
conservativa e di tutela, sono quindi acquisiti
nella riforma Bottai.
Il complessivo programma fascista di politica
della cultura non si ferma alle cose
d’interesse artistico o storico, alle
bellezze paesistiche e agli archivi di Stato,
ma si estende in maniera organica alle attività
culturali: teatro, lirica e spettacoli
viaggianti, incentivati con sovvenzioni e sottoposti
a controlli e programmi ( R.D.L. n. 1547 del 1938
conv. in legge n. 423 del 1939 e D.C.G. n. 1813 del
1939); cinematografia nazionale, incentivata con
“premi di produzione” e sottoposta ad autorizzazione
(legge n. 458 del 1939 e D.C.G. n. 1812 del 1939) ed
istituzione del monopolio statale, affidato
all’ENIC, di importazione/ distribuzione dei film
provenienti dall’estero; protezione del diritto
d’autore (legge 22 aprile 1941 n. 633) e norme sulla
consegna obbligatoria degli stampati alla presidenza
del consiglio e alle biblioteche nazionali centrali
(legge 2 febbraio 1939 n. 374); riordino della
Discoteca di Stato (legge 2 febbraio 1939 n.
467).
1.2. Cultura e patrimonio
storico e artistico nella Costituzione della
Repubblica Italiana.
La funzione pubblica di tutela del patrimonio
culturale e ambientale assurge alla massima dignità
legislativa con l’introduzione, nella Costituzione
repubblicana, di un articolo ad essa dedicato.
L’art. 9 (commi 1 e 2) afferma che « la
Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la
ricerca scientifica. Tutela il paesaggio e il
patrimonio storico e artistico della Nazione ».
Con tale solenne dichiarazione la Repubblica
Italiana si è data una “costituzione culturale” ed
ha adottato il preciso indirizzo di assumere tra i
compiti essenziali dello Stato la promozione, lo
sviluppo e l’elevazione culturale della
collettività, nel cui quadro s’inserisce come
componente primaria la tutela del paesaggio e del
patrimonio storico e artistico (che, quindi, è
protetto al di là di valutazioni prettamente e
esclusivamente patrimoniali).
La problematica giuridica del bene culturale si
pone, poi, in relazione alla libertà della cultura,
proclamata dall’art. 33, comma 1 della Costituzione:
“L’arte e la scienza sono libere e libero n’è
l’insegnamento”.
Se mettiamo in relazione il primo comma
dell’articolo 9 della Costituzione:- “La Repubblica
promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca
scientifica e tecnica” - con l’art. 33 che,
affermata la libertà della cultura, impone allo
Stato di emanare le norme generali sull’istruzione e
di definizione dell’autonomia delle istituzioni di
alta cultura, e di istituire scuole statali per
tutti gli ordini e gradi, possiamo rilevare come
nella configurazione costituzionale la libertà
dell’arte e della scienza si colloca in una
dimensione dinamica, in un intreccio di garanzie
per i singoli e di vincoli per l’intervento dello
Stato. La libertà culturale così
garantita esprime il rifiuto di una scienza o di
un’arte di regime, e conseguentemente d’ogni
atteggiamento succube dei pubblici poteri nei
confronti di una cultura dominante: “politica della
cultura” e non “politica culturale” dei governanti.
Lo Stato repubblicano non può proporsi né come
giudice, né come mediatore nei confronti delle
dinamiche conflittuali nell’arte.
Dalla circostanza, poi, che concettualmente l’arte e
la scienza sono considerate manifestazioni del
pensiero, non può non dedursi una sostanziale
derivazione della libertà culturale dalla libertà
tutelata dall’art. 22 della Costituzione.
La libertà culturale si estende al
risultato dell’attività culturale; tanto al
“bene immateriale opera dell’ingegno” quanto alla
“cosa bene culturale”, la conservazione e fruizione
della quale ultima risulta così essenziale alla
libertà culturale e particolarmente alla libertà
d’insegnamento
La fruizione del bene culturale si
sostanzia in un’acquisizione di conoscenze che è
apprendimento. Attraverso l’enunciazione della
libertà d’insegnamento trovano garanzia, sul piano
costituzionale, indirettamente la conservazione e,
direttamente, la fruizione del bene culturale.
Dalla carta costituzionale non si evince pertanto
nessuna particolare opzione sul regime di proprietà
(pubblico o privato) del bene culturale, ma se ne
desume la garanzia della libera fruizione.
Merita, infine, di essere messo in evidenza:
- che il soggetto cui le norme costituzionali
affida il compito di promuovere la cultura (art. 9,
1 c., Cost.) e di tutelare il paesaggio ed il
patrimonio storico ed artistico della Nazione (art.
9, 2 c. Cost.) è la Repubblica che, come
recita il novellato art. 114, 1 c. Cost. è
“costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città
metropolitane e dallo Stato” (e, non, quindi, dal
solo Stato);
- che il predicato <nazionale> del patrimonio
culturale da tutelare non deve essere oggetto di
lettura “territorialista” e, quindi, non fa
riferimento alle sole cose artistiche, prodotte o
comunque acquisite alla fruizione delle
collettività costituenti il popolo italiano, e agli
oggetti di stretta testimonianza materiale della
storia d’Italia.
1.3. Dalla legislazione sui “beni
culturali e ambientali” alla legislazione su “beni e
attività culturali” (1975-2001)
1.3.1. Studi sulla “tutela” e la
“valorizzazione” del patrimonio storico artistico e
delle bellezze paesistiche, nel primo ventennio
della Repubblica
Il primo ventennio di vita repubblicana registra
una scarsa attenzione per i sempre più emergenti
problemi della tutela del patrimonio storico
artistico e delle bellezze paesistiche.
Possono essere segnalati i seguenti interventi
legislativi: il D.L.Lgt. 31 agosto 1945 n. 660, che
modifica la legge n. 374 del 1939 sulla consegna
obbligatoria degli stampati; la legge 21 dicembre
1961 n. 1552 sul restauro; il D.P.R. 30 settembre
1963 n. 1409 sul nuovo ordinamento degli Archivi di
Stato (peraltro ancora al di fuori della nozione di
cosa d’interesse storico).
Solo con la legge 26 aprile 1964, n. 310 è istituita
una “ Commissione d’indagine per la tutela e la
valorizzazione delle cose d’interesse storico,
archeologico, artistico e del paesaggio”
(Commissione Franceschini dal nome del suo
Presidente). Le proposte (1966) della commissione
Franceschini, espresse in 84 « Dichiarazioni »,
sono il frutto di una collaborazione d’insigni
giuristi e di studiosi dell’arte, e saranno
utilizzati nella successiva legislazione, al pari
delle proposte delle successive Commissioni Papaldo
( 1968 e 1971).
1.3.2. Nascita, nel 1975, del
Ministero per i beni culturali e ambientali.
Un decennio circa d’indagini, studi e iniziative
di sensibilizzazione, conduce all'istituzione, nel
1975, del Ministero per i Beni Culturali e
Ambientali (con D.L. 14 dicembre 1974 n. 657
convertito con legge 29 gennaio 1975 n. 5). Giovanni
Spadolini è il primo dei Ministri preposti al
Ministero.
In tal modo le “Antichità e belle arti”
diventano “Beni culturali”. Come è stato notato, le
etichette contano: «Antichità e belle arti» era
un’etichetta incentrata solo sui contenuti di
ciò che era soggetto a speciali norme tutela; “Beni
culturali”, al contrario, allude non solo al
significato culturale di ciò che va tutelato, ma
anche al suo valore patrimoniale in senso
stretto, e, quindi, se non proprio alla sua
traducibilità in termini monetari, al suo valore
economico indiretto. Le intenzioni erano ottime:
puntare sul valore economico del patrimonio
culturale per ottenere più finanziamenti per la
tutela. Ma dalla creazione di un nuovo e
«indipendente» Ministero, piuttosto che un’effettiva
valorizzazione dei beni culturali, se ne è
sicuramente realizzato l’isolamento rispetto
all’istruzione pubblica.
Sono, poi, emanate una serie di leggi specifiche
su problemi particolari inerenti alla tutela del
patrimonio, senza tuttavia che si arrivi ad una
riforma completa, che superi la legislazione Bottai.
Quest'ultima, frattanto, non ha subito sostanziali
modifiche, salvo alcune rettifiche concernenti il
problema spinoso dell'esportazione d’opere d'arte
(legge 8 agosto 1972 n. 482), adeguata agli accordi
sulla libera circolazione delle merci nei paesi
della Comunità Europea.
Il D.P.R. 14 gennaio 1972 n. 3 trasferisce alle
Regioni le funzioni statali in materia di
“biblioteche di enti locali” ed introduce il
criterio (poi non più sviluppato nella successiva
legislazione dei beni culturali) dell’interesse
locale a fianco di quello semplicemente
territoriale- geografico.
Il successivo D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616
trasferisce (art. 83) alle Regioni la competenza in
materia di interventi per la protezione della
natura, le riserve e i parchi naturali.
Proseguono interventi normativi d’emergenza o
d’aggiornamento: norme in materia d’urbanistica per
la definizione dei centri storici, sanzioni per la
contraffazione e regolamenti per il commercio dei
beni, questioni di sicurezza, disposizioni sui
vincoli paesaggistici e ambientali.
Di un certo rilievo è la legge 2 agosto 1982, n. 512
sul sistema d’esenzioni e agevolazioni
tributarie, finalizzate a promuovere un’attiva
partecipazione dei proprietari privati alla
conservazione, restauro e apertura al pubblico
godimento dei beni culturali (l’arte come petrolio
dell’Italia).
Nel 1986 il Ministero per i beni culturali è
coinvolto, con altri Ministeri, in una confusa
iniziativa di catalogazione informatica dei beni,
lanciata (dall’allora Ministero del lavoro De
Michelis) sotto lo slogan di “giacimenti
culturali”, di risorse “passive” non sfruttate
in maniera adeguata.
Nel 1990, a seguito dell’entrata in vigore dell’Atto
Unico Europeo (1981), viene approvata la legge 19
aprile 1990 n. 84, concernente la formazione di un
piano organico di inventariazione e
catalogazione (con criteri uniformi) di tutti i
beni (artistico-storici, archeologici, storico
scientifici, archivistici, librari), pubblici o
privati, che costituiscano una rilevante
testimonianza della storia della civiltà e della
cultura; nonché l’elaborazione di una carta del
rischio dei beni culturali.
La legge 29 dicembre 1990 n. 431 (di modifica delle
leggi n. 44 del 1975, n. 526 del 1982 e n. 332 del
1985) detta norme in materia di sicurezza per i
beni culturali.
La legge 23 luglio 1991 n. 234 introduce, agli
effetti di finanziamenti pubblici puntuali, il
principio di tutela delle attività culturali,
distinta dalla tutela dei beni culturali nella loro
materialità. La successiva legge 8 ottobre 1997 n.
352 (che delega il Governo ad emanare un testo unico
in materia di “beni culturali e ambientali”) regola
(art. 2) la “programmazione delle attività
culturali” dello Stato o a cui lo Stato concorre
finanziariamente. La legge n. 352 ricomprende nell’attività
culturale (oltre a compiti di manutenzione,
protezione, restauro e acquisto di beni culturali
che, di per sé, attengono alle funzioni di tutela
dei beni stessi):
- l’organizzazione in Italia e all’estero di mostre
ed esposizioni di rilevante interesse scientifico-
culturale;
- manifestazioni di rilevante interesse scientifico-
culturale, anche ai fini didattico promozionali;
- manifestazioni per la collaborazioni di
anniversari di persone illustri, scoperte,
invenzioni ed eventi storici;
- organizzazione di eventi musicali di rilevante
interesse;
- organizzazione di manifestazioni finalizzate alla
valorizzazione delle tradizioni culturali locali.
Con D.M. 5 marzo 1992 è costituito, in collegamento
con il Ministero per i beni culturali e ambientali,
il Comando Carabinieri per la tutela del
patrimonio artistico.
La legge 17 ottobre 1996 n. 534 riordina
radicalmente il sistema di erogazione dei contributi
statali alle istituzioni culturali,
sostituendosi alle leggi 4 agosto 1978 n. 470 e 2
aprile 1980 n. 123.
1.3.3. Regioni e beni culturali.
Negli anni Novanta - nel quadro di una confusa ma
potente spinta “federalista” - sono adottati
provvedimenti legislativi che tentano di
disciplinare, pur in assenza di una visione organica
e unitaria, i rapporti tra Stato, Regioni e
Comuni per gli interventi di tutela e valorizzazione
e le modalità di coinvolgimento di privati. Uno
stimolo decisivo proviene dalla legge Bassanini (L.
15 marzo 1997 n. 59): essa, pur prevedendo la
«delega al Governo per il conferimento di funzioni e
compiti alle Regioni e agli Enti Locali, per la
riforma della Pubblica Amministrazione e per la
semplificazione amministrativa», ribadisce con
chiarezza il compito di tutela dei beni culturali
come proprio dello Stato.
Con il d. lgs. 31 marzo 1998 n. 112, emanato in
attuazione della delega di cui alla legge n. 59 del
1997, sono stabilite le possibili vie di
collaborazione tra Stato, Regioni ed Enti locali per
l'avvio d’efficaci politiche non solo di tutela, ma
anche di valorizzazione e promozione del patrimonio.
L'impostazione è, nel complesso, prudente: il
terreno diviene scivoloso allorché i valori della
cultura collettiva devono confrontarsi con
considerazioni di carattere schiettamente economico
e questioni d’interazione tra diversi attori
istituzionali.
1.3.4. La promozione delle attività
culturali
Con il d. lgs. 20 ottobre 1998 n. 368 è
ristrutturata l’amministrazione centrale dei beni
culturali, con la nuova denominazione di
Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Il termine «attività » è un indizio sicuro
riguardo agli obiettivi del Ministero, nel senso
dell'avvio di politiche volte alla promozione e alla
valorizzazione, anche in termini gestionali ed
economici, dei beni culturali nazionali.
Il nuovo nome, Ministero per i Beni e le
attività culturali, riflette l’idea che i beni
di per se sono ben poca cosa, se non “dinamizzati”
nel contesto di un’attività; suggerisce che i
musei sono meno importanti delle mostre, che le
piazze d’Italia sono più belle se ospitano “eventi”
d’ogni tipo. Tanto più che la legge n. 368 del 1998
attribuisce al ministro dei Beni e delle attività
culturali anche tutte le competenze sullo
spettacolo e sullo sport, ossia su altre
attività da promuovere e valorizzare. In tal modo
le funzioni di tutela dei beni culturali sono
oggettivamente circoscritte.
La tradizione alta e radicata di tutela del
patrimonio culturale si trova quindi a fare i conti
con spinte centrifughe a concepirlo in termini
meramente economicistici e ad asservire i contenuti
alle nuove tecnologie: in particolare all’illusione
della digitalizzazione. Non si considera,
infatti, che i prodotti informatici per i beni
culturali possono essere efficienti e duraturi solo
se costruiti mediante una strettissima interazione
fra le informazioni (contenuto) e tecnologie, cioè
mescolando le competenze di funzionari dei beni
culturali, storici, storici dell’arte, ecc. e dei
tecnici informatici.
1.3.5. Il Testo Unico dei “Beni
Culturali e Ambientali” (1999), e il tentativo
d’unificazione delle categorie concettuali del
patrimonio culturale e ambientale.
Nel 1999, a sessant'anni dalle leggi Bottai, si
giunge al riordino di tutta la normativa vigente
nel Testo unico sui beni culturali (d. lgs.
n. 490 del 1999), emesso in concomitanza con
numerose altre innovazioni d’ambito amministrativo,
collegate, come si è detto, il d. lgs. n. 112 del
1998.
La prima e importante questione affrontata in sede
di dibattito nel corso dell’iter dell’esercizio
della delega è stata quella della definizione di
bene culturale.
Si affrontano due linee di pensiero, che da
trent’anni si contrapponevano:
- la concezione reale e normativa dei
beni culturali, secondo la quale sono beni culturali
solo le categorie di cose espressamente
individuabili in base a esistenti norme di legge;
- la concezione unitaria, per cui sono beni
culturali tutte le testimonianze aventi valore
di civiltà .
L’art. 148, comma 1, lettera a) del decreto
legislativo 31 marzo 1998 n. 112 aveva incluso (ai
fini del riparto di competenze tra Stato e Regioni)
una definizione dei beni culturali estesa a tutti
gli “altri” beni (oltre a quelli elencati per
tipologia) “che costituiscono una testimonianza
avente valore di civiltà ”; e aveva incluso
nell’elencazione un tipo di beni “demoantropologico”
che in parte (per musiche, canti, tradizioni,
linguaggi, costumi, siti, ecc.) sono privi del
connotato della materialità .
L’art. 4 del Testo Unico del 1999 recepisce la
categoria aperta dei beni culturali (“altri”) e
prevede, all’art. 4, nuove categorie di beni
culturali “individuati dalla legge come beni
culturali in quanto testimonianza avente valore di
civiltà ”.
Il Testo unico Veltroni - Melandri
accoglie in sé tutta la precedente disomogenea
normativa in materia di tutela del patrimonio,
tentando di ripensarla, armonizzarla e
attualizzarla. E’ composto da due titoli, che
concernono rispettivamente i beni culturali
(artt. 1-137) e i beni ambientali (artt.
138-166). Nella sostanza si sovrappone alla legge
Bottai n. 1089 del 1939, assorbendone norme e
definizioni e integrandola ampiamente con altre
norme di raccordo.
La materia dei beni culturali si presenta
notevolmente allargata, con alcune aperture a
settori finora trattati altrove, come la gestione
museale, le procedure d’intervento conservativo, il
campo dell'arte contemporanea.
Maggiormente individuati appaiono, nel Testo
unico, la partecipazione delle Regioni e
degli enti locali alle attività di tutela e di
conservazione dei beni (art. 11), le procedure di
catalogazione e inventariazione del patrimonio
nazionale (art. 16), il coordinamento degli archivi
(artt. 9, 30, 40), le convenzioni internazionali
(art. 20). Vi si trovano altresì importanti
indicazioni sul tema del restauro e della
conservazione (arti. 34-38), sui finanziamenti
relativi (artt. 41-46), sulla tutela degli studi
d'artista, sul commercio in botteghe site in
aree di valore culturale (art. 53); alcuni
aggiornamenti sulla circolazione delle opere
nell'ambito dell'Unione Europea (artt. 71-75) e
sulla definizione di «pubblica godibilità » in
riferimento al Codice civile (art. 98).
La gestione dei musei è ampiamente affrontata
dagli articoli dal 99 al 113, con alcuni passaggi
specifici riferiti alla visita pubblica dei
beni culturali, alla fruizione da parte delle
scuole, ai servizi di base e aggiuntivi, alla
riproduzione dei beni culturali. Altri
fondamentali aggiornamenti normativi riguardano,
come già accennato, l'attività legata all'arte
contemporanea.
Il Testo unico sui beni culturali, peraltro, non
ha esaurito la questione della protezione e
divulgazione dei beni culturali né ha chiarito la
distribuzione delle effettive competenze nella
gestione del patrimonio tra Stato e Regioni.
Sulla scia del d. lgs. n. 112 del 1998 (art. 150,
c. 6) si pone il D.M. 10 maggio 2001 (in G.U. n.
244, suppl. ord., del 2001) concernente “Atto di
indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli
standard di funzionamento e sviluppo dei musei”.
1.3.6. L’esternalizzazione della gestione dei
beni culturali, negli anni Novanta.
A partire dagli anni Novanta si pone nella
legislazione italiana il problema dell’ingresso dei
privati nel settore dei beni culturali, non
più come “proprietari” assoggettati ai vincoli e
come “visitatori” dei musei, ma come “gestori” di
porzioni delle funzioni pubbliche di offerta
espositiva dei beni culturali.
Alberto Ronchey, ministro dei Beni
culturali, introduce per primo i privati nei musei
italiani, col decreto legislativo n. 433 del 1992
(poi trasformato in legge n. 4 del 1993), che
istituisce presso i musei «servizi aggiuntivi a
pagamento», essenzialmente di libreria e di
ristorazione, da affidarsi in gestione ai privati, e
prevede il ricorso al volontariato per prolungare
gli orari d’apertura. La misura non si accompagna
ad alcun parallelo progetto di rifunzionalizzazione
della pubblica amministrazione.
Nel 1995 il ministro dei Beni culturali
Paolucci con un nuovo decreto legislativo (n. 41
del 1995, poi trasformato in legge n. 85 del 1995),
riservando allo Stato «gli obblighi di tutela»,
allarga il numero e la natura dei servizi che si
possono dare in gestione a fondazioni culturali o
bancarie, società o consorzi privati.
Più tardi il ministro dei beni dei Beni
culturali, Veltroni, precisa che tali servizi
possono essere affidati all’esterno «qualora non
possano essere svolti mediante risorse umane e
finanziarie dell’amministrazione» (D.M. 139/1997) ed
istituisce la Sibec (Società Italiana per i
Beni Culturali S.p.a.) per la realizzazione degli
interventi di restauro, recupero e valorizzazione
dei beni culturali, società che, di fatto, non
diventerà mai operativa; e che nel 2003 sarà
sostituita da un’analoga Arcus s.p.a.. Nella
legge di riordino e nuova denominazione del
Ministero per i beni e le attività culturali si
puntano invece ad una pluralità di società e
fondazioni da costituirsi caso per caso
(successivamente regolate da un decreto del Ministro
Urbani del 27 novembre 2001). Nell’art. 33
della legge finanziaria 2002 (legge 28 dicembre 2001
n. 448) si prevede la “concessione a soggetti
diversi da quelli statali la gestione di servizi
finalizzati al miglioramento della fruizione
pubblica e della valorizzazione del patrimonio
artistico … secondo modalità, criteri e garanzie
definiti con regolamento”. La concessione ai privati
dell’intero versante gestionale e della
valorizzazione non appare, peraltro, ben coordinata
con la sopravvenuta riforma del Titolo V della
Costituzione che affida alle Regioni la
“valorizzazione” dei beni culturali.
1.3.7. La vendita dei beni culturali
derubricati dall’ interesse storico-artistico.
In concomitanza con la politica di
“esternalizzazione” dei servizi di valorizzazione e
di gestione dei musei, dei complessi archeologici e,
in generale, dei beni culturali pubblici, si
sviluppa nella legislazione finanziaria dello Stato
la tematica della “valorizzazione, gestione ed
alienazione del patrimonio dello Stato”, beni
culturali inclusi, sia pure “nel rispetto dei
requisiti e delle finalità dei beni pubblici”,
ossia delle peculiarità intrinseche alla tipologia
dei beni pubblici stessi.
L’art. 7 del D.L. 15 aprile 2002 n. 63 (così come
convertito in legge 15 giugno 2002 n. 112)
istituisce all’uopo (in sostituzione della pur
recente Agenzia del Demanio, subentrata alla
Direzione Generale del Demanio e alle Intendenze di
Finanza) la “Patrimonio dello Stato s.p.a.”, cui
possono essere trasferiti i beni immobili
facenti parte del patrimonio disponibile e
indisponibile dello Stato.
Rientrano nella possibilità di trasferimento
anche i “beni di particolare valore artistico e
storico”, quando ci sia “intesa” con il Ministro per
i beni e le attività culturali.
La norma non manca di precisare che il
trasferimento non modifica il regime giuridico dei
beni trasferiti, e che quindi di beni immobili
culturali dello Stato trasferiti alla Patrimonio
s.p.a. ed eventualmente alienati restano beni
culturali, ancorché sotto dominio privato.
L’art. 84 della legge 27 dicembre 2002 n. 289
(finanziaria 2003) autorizza, del pari, Regioni,
enti locali ed enti pubblici a costituire o a
promuovere la costituzione, anche mediante soggetti
terzi, di società a responsabilità limitata aventi
ad oggetto esclusivo la realizzazione d’operazioni
di cartolarizzazione dei proventi derivanti dalla
dismissione dei rispettivi patrimoni immobiliari;
dismissioni realizzabili ovviamente ferma restando
la regolamentazione di vincolo dei beni culturali
alienati.
L’orientamento normativo tende, comunque, a
ridimensionare il patrimonio culturale in mano
pubblica e a privilegiare l’intervento
pubblico regolativo rispetto all’intervento
pubblico dominicale e gestionale.
La vicenda della c.d. “vendita del
patrimonio immobiliare pubblico” e della
salvaguardia del patrimonio culturale prosegue con
la legge 24 novembre 2003 n. 326 (“collegato” alla
finanziaria 2004) di conversione, con modifiche, del
Decreto Legge 30 settembre 2003 n. 269.
Con il collegato alla finanziaria 2004 viene
istituita (art. 27) la “verifica
dell’interesse culturale del patrimonio immobiliare
pubblico”; ossia una procedura amministrativa con la
quale le soprintendenze effettuano “la verifica
circa la sussistenza dell’interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico nelle cose
[immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle
regioni, alle provincie, alle città metropolitane,
ai comuni e ad ogni altro ente ed istituto
pubblico], d’ufficio o su richiesta dei soggetti cui
le cose appartengono, sulla base di indirizzi di
carattere generale stabiliti dal Ministero per i
beni e le attività culturali”.
Qualora nelle cose sottoposte a verifica non
sia più riscontrato l'interesse
storico-artistico, le cose stesse sono escluse dal
regime di tutela. L'esito negativo della
verifica da parte del Ministero dei beni e delle
attività culturali è comunicato ai competenti
uffici affinché ne dispongano la
sdemanializzazione, qualora non vi ostino altre
ragioni di pubblico interesse.
I beni nei quali sia stato riscontrato, ossia
confermato, l'interesse artistico, storico,
archeologico o etnoantropologico, restano,
invece, definitivamente sottoposti alle
disposizioni di tutela, e tale accertamento
positivo costituisce “dichiarazione” del valore
culturale secondo le norme del T.U.
L’istituto della “verifica” è, poi, incluso a regime
nel D.Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, Codice dei beni
culturali e del paesaggio (art.12).
Ma l’annoso e secolare problema dell’incompleto
censimento dei beni culturali pubblici e del
correlativo ricorso a misure generalizzate ed ex
lege per sopperire a tale carenza, è stato
complicato nella versione originaria del Codice
(prima della modifica del 2006), dall’affiancamento
alla procedura di “verifica” (ormai disciplina a
regime nell’art. 12 del Codice), del contestatissimo
(ora eliminato) istituto del “silenzio-assenso”,
termine di 120
giorni entro i quali le Soprintendenze
territoriali e regionali avrebbero dovuto, per
impedire la vendita, dichiarare in modo documentato
il "valore culturale" del bene (art. 27 del d.l. n.
269 del 2003 convertito con legge n. 326 del 2003, e
mantenuto fermo dall’ultimo comma dell’art. 12 del
Codice). L’istituto del silenzio-assenso è stato
oggetto di abrogazione nel ritocco (2006) del Codice
dei beni culturali, da parte del Ministro
Buttiglione.
1.4. Il “Codice dei beni culturali e del
paesaggio” e la riorganizzazione del Ministero per i
beni e le attività culturali (2004- 2007).
1.4.1. La riorganizzazione del Ministero per i beni
e le attività culturali
Il Ministro Urbani - avvalendosi delle
disposizioni della legge n. 137 del 2000 che
delegavano il Governo ad apportare modifiche o
correzioni ai decreti legislativi per la
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche
già emanati ai sensi della legge Bassanini n. 59
del 1997 – imposta la ristrutturazione del Ministero
per i Beni e le Attività Culturali, articolandolo
in quattro dipartimenti, da cui dipendevano le
Direzioni Generali, abolendo il Segretariato
Generale (istituito nel 1998).
Un Dipartimento per i beni
culturali e paesaggistici, ''per
rafforzare il concetto che la tutela di questi
differenti tesori che formano il Bel Paese è un
tutt' unico indivisibile”. Da questo dipartimento
dipendevano le Direzioni Generali per l'Archeologia,
per i Beni Artistici e Storici, per l'Architettura e
l'Arte Contemporanea e quella per i Beni
Architettonici e il Paesaggio..
Un Dipartimento per gli
archivi e le biblioteche, da cui
dipendevano la Direzione Generale per gli Archivi e
quella per le Biblioteche e gli Istituti culturali.
Tale dipartimento è stato aggiunto, in sede di
parere parlamentare, a seguito di un animato
dibattito nell’opinione pubblica, contraria
all’assorbimento dei beni librari ed archivistici
nei beni artistico-storici destinatari
dell’originaria tutela delle antichità e belle
arti.
Un Dipartimento per lo
Spettacolo e lo Sport, da cui dipendevano
le Direzioni enerali per lo Spettacolo dal Vivo e
per il Cinema. In questo modo, da una parte si
formalizza una maggiore attenzione al settore
teatrale e musicale, dall'altra parte vengono
istituzionalizzate le competenze del Ministero in
materia di vigilanza sullo sport.
Un Dipartimento per la Ricerca
e Innovazione, che voleva essere il cuore
della riforma. Tale dipartimento, suddiviso in
Direzione Generale delle Risorse Umane e Formazione
e Direzione Generale dell’ Innovazione Tecnologica e
Promozione.
E’ stato osservato che tale
modifica delle norme organizzative del Ministero -
che si sostanziava in un possibile depotenziamento
delle Direzioni Generali specialistiche (accorpate
nei Dipartimenti) e nella creazione di Direzioni
regionali (oggi conservate) che, del pari,
potrebbero comprimere, in nome
dell’interdisciplinarietà, le soprintendenze
specialistiche – tendeva allo sviluppo
in senso manageriale della dirigenza pubblica dei
beni culturali e, forse, alla creazione di future
“soprintendenze uniche”.
Su questa strada sembra essere avviato un processo
di
progressivo
deperimento
delle strutture e dell'effettiva qualificazione
scientifica del
Ministero per i Beni e
le attività
culturali, aggravato dal
taglio
delle spese per
le
attività
correnti
e dal blocco delle assunzioni degli specialisti. In
particolare,
con l’ arresto
dell’ ingresso di nuove leve nelle Soprintendenze di
settore che operano sul territorio con
funzioni conservative e tecniche assai collegate
all’esperienza professionale da acquisire sul campo,
potrebbe, alla
lunga, risultare sfasata la stessa adeguatezza degli
interventi regolativi del Ministero.
In questo scenario di tendenziale depotenziamento
del ruolo degli specialisti (storici dell’arte e
archeologi) e di crescita della dirigenza
“manageriale” centrale, si inquadra la norma
regolamentare che prevede che
la direzione
delle cosiddette
Soprintendenze
autonome
(oggi sei:
Soprintendenze archeologiche di Pompei e
di Roma e
Soprintendenza ai
poli museali di.
Firenze,. Roma, Napoli e Venezia) possa
essere affidata
a
rispettivi direttori regionali (funzionari
amministrativi o architetti) .
1.4.2. Il “Codice dei beni culturali e del
paesaggio” (D. Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42)
L’azione del ministro Urbani sfocia
nell’adozione del nuovo codice dei beni culturali e
ambientali, sostitutivo del T.U. del 1999.
La trama del Codice dei Beni culturali e del
Paesaggio (D. Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42), varato
dal Ministro Urbani ed entrato in
vigore il primo
maggio
2004, è così articolata: disposizioni generali
(parte I); beni culturali (parte II):
tutela (individuazione, vigilanza, misure di
protezione e di conservazione, circolazione in
ambito nazionale ed internazionale, ritrovamenti e
scoperte, espropriazione), fruizione e
valorizzazione (e forme di gestione); beni
paesaggistici (parte III); sanzioni
(parte IV).
Il Codice tralascia volutamente disposizioni di
dettaglio e, soprattutto, espunge (diversamente dal
sistema di codificazione francese) le norme relative
all’organizzazione dei poteri pubblici chiamati a
regolare, controllare e gestire (norme che sono
contenute, ma non soltanto, nel D. Lgs. 8 gennaio
2004 n. 3 e nel Regolamento di organizzazione del
Ministero per i beni e le attività culturali 8
giugno 2004 n. 173). Sotto quest’ultimo aspetto è
stato osservato che manca la considerazione
congiunta e armonica da un lato della normativa di
relazione dei beni culturali e dall’altro della
organizzazione ministeriale, centrale e periferica,
che, ormai in concorso con altri poteri, deve
concretamente agire.
Le principali novità - nei limiti del riparto delle
competenze legislative e amministrative tra Stato,
regioni ed enti locali di cui agli artt. 117, commi
2 e 3, e 118 comma 1 Cost. -
sono inserite in
un contesto di disposizioni che
riprendono (
per lo più con
una formulazione
letterale pressoché identica)
le precedenti
norme facenti parte di un corpus
legislativo
complesso e articolato,
dal quale non era possibile prescindere. In
particolare i “beni culturali” mantengono
l’accezione normativa e reale, già presente nella
legge Bottai e nel T.U. Veltroni - Melandri.
L’accezione metagiuridica (antropologica)
dell’espressione “beni culturali” resta fuori del
Codice.
Vi sono, peraltro, innovazioni sostanziali
che segnano
una svolta
radicale
nei confronti della quasi secolare normativa
dei beni culturali italiani.
In primo luogo, il nuovo statuto del “bene
culturale” non è più incentrato sul regime (di
tutela e di fruizione pubblica) e sull’estensione
della proprietà pubblica (“demanio inalienabile”) e
sull’accessoria disciplina vincolistica dei beni
privati di elevato pregio culturale, quanto, invece,
sulla “regolamentazione” amministrativa (della
conservazione e della circolazione)
indifferentemente riferita a beni culturali pubblici
o privati.
Icasticamente può dirsi: meno proprietà
(soggettivamente) pubblica dei beni culturali e più
regolazione amministrativa di cose qualificate da
valenza storico-artistica. Cose che, a chiunque
appartengano, in ragione di una comune
connotazione, sono assoggettate ad un regime
di limitazione in vista di un interesse
conservativo (per le future generazioni)
reputato superiore alla libera e totale
disponibilità del proprietario.
Il nuovo statuto del “bene culturale” si riflette
sia sulle modalità di identificazione del
bene, vieppiù variabili in ragione della natura
del titolare, sia sulla circolazione dello
stesso.
Quanto all’individuazione del bene culturale
la più rilevante innovazione concerne le cose
immobili e mobili in mano pubblica (o di enti
privati di rilievo pubblico, e cioè organismi senza
fini di lucro) per i quali non vige più la
“presunzione generale di culturalità ” legata alla
pratica degli elenchi dei beni compilati
dagli enti pubblici, ma si afferma la necessità
che (salvo per i beni culturali ex lege di cui
all’art. 10 comma 2 e all’art. 91 comma 1 del Codice
dei beni culturali, ossia le collezioni d’arte,
documenti e libri nonché i reperti archeologici)
intervenga una specifica e singola “verifica”
dell’interesse culturale che, se negativa, può dar
luogo alla sdemanializzazione del bene (in quanto
culturale, ferma restando la possibilità che esso
resti nel demanio ad altro titolo).
E’ pur vero che - anche se a titolo cautelativo, i
beni già inclusi negli elenchi restano, pro
tempore, soggetti alla disciplina dei beni
culturali - sotto questo riguardo la “verifica” che
devono subire i beni culturali in mano pubblica
equivale, alla “dichiarazione” indirizzata ai beni
culturali privati.
Relativamente alla dichiarazione di interesse
culturale relativa ad un bene privato il Codice
introduce (art. 16) un ricorso amministrativo
al Ministero, per motivi di legittimità e di
merito, con ciò aumentando le garanzie dei
proprietari privati.
Quanto alla circolazione dei beni culturali
le innovazioni riguardano, nuovamente, i beni
culturali pubblici che passano da una condizione di
generale inalienabilità ad un sistema
differenziato. E’ questo il problema dell’alienazione
dei beni culturali pubblici che occorre ben
distinguere da quello che potremo definire della
de-culturalizzazione (o sclassificazione) di beni in
mano pubblica, come evento prodromico
dell’alienazione. L’opinione pubblica e gli stessi
esperti non giuristi hanno (forse a ragione dal
punto di vista pratico) messo assieme le due vicende
sotto l’unica etichetta della possibile svendita
indiscriminata dei tesori culturali dello Stato. In
realtà c’è una differenza di sostanza e di
procedimento tra la “verifica” che, per così dire,
sconsacra un bene culturale (e lo restituisce in
pieno al libero mercato) e la vendita a privati di
taluni tipi di beni culturali (in pratica solo gli
immobili). che continuano ad essere assoggettati
alle limitazioni amministrative.
Sui beni
culturali alienati permangono, quindi, i vincoli
diretti ad assicurare la tutela, la valorizzazione e
il pubblico godimento, ma viene lasciato cadere
l’automatico annullamento della vendita e ritorno
del bene alla proprietà pubblica nel caso di
mancato rispetto, da parte degli acquirenti, degli
impegni di restauro assunti (l’art. 184 del Codice
abroga, infatti, il regolamento 7 settembre 2000 n.
283).
Ma certamente viene rovesciato il principio
ispiratore fondamentale della legislazione di tutela
della legge Rosadi del 1909: ossia
che tutto il patrimonio culturale pubblico (“demanio
culturale” secondo l’attuale art.153 del Codice dei
beni culturali, per tutte le categorie indicate
dagli artt. 822 e 824 del Codice civile) è
inalienabile,
salvo eccezioni
definite dalla legge, perché considerato bene comune
di tutti i cittadini e fondamento
dell'identità nazionale.
Viene introdotto, dal Codice, un sistema a tre
livelli:
1.
beni assolutamente inalienabili
(art. 54, commi 1 e 2: immobili e aree
archeologiche, monumenti nazionali, raccolte di
musei, pinacoteche, gallerie e biblioteche, archivi,
altri beni immobili di interesse storico
particolarmente importante);
2.
beni immobili del demanio culturale alienabili
previa autorizzazione
del Ministero dei beni culturali condizionata
ad obblighi di godimento pubblico e destinazione
d’uso (art. 55);
3. beni mobili culturali alienabili con semplice
autorizzazione (art. 56).
In secondo luogo, nel Codice, viene ipotizzato un
“sistema” policentrico dei beni culturali in cui lo
Stato – con lo
svuotamento dell’equivoca nozione di
“valorizzazione” dei beni culturali (già
contrapposta alla tutela e già attribuita per
intero alla competenza regionale) e con il
potenziamento del “momento gestionale” in funzione
della fruizione – ha facoltà, da un lato, di
decentrare funzioni alle regioni e agli enti locali,
mediante “nuove forme di cooperazione” e di accordi
e intese politiche “caso per caso”;e, dall’altro,
può cogestire, mediante “fondazioni partecipate”
assieme ai poteri e alle forze economiche locali,
servizi museali di eccellenza; e, infine, può
mantenere, con la società finanziaria in mano
ministeriale (Arcus s.p.a.), il controllo degli
investimenti del settore.
Il sistema dei beni culturali risistemato dalla
codificazione e dalla riorganizzazione
amministrativa del Ministro Urbani nel 2004 si
parametra e si misura con le innovazioni
costituzionali e sociali relative ai rapporti di
sussidiarietà verticale tra Stato e Regioni
(dove viene resa evanescente la già logora
contrapposizione nominalista tra tutela e
valorizzazione) e al crescente spazio assunto dalla
sussidiarietà orizzontale, che registra
l’affidamento ai privati ai privati (non solo da
parte dello Stato ma degli enti locali) di compiti
gestionali inerenti a beni culturali pubblici.
Rientra in quest’ultima evenienza l’introduzione
della figura organizzativa delle fondazioni miste,
cui lo Stato conferisce importanti complessi
museali che intende co-gestire con poteri locali,
fondazioni bancarie e grandi imprese private
operanti nel territorio. Le fondazioni diventano,
quindi, un surrogato del trasferimento ai
poteri locali della proprietà di musei e
biblioteche statali e una forma di coinvolgimento
dei privati.
La questione
della distinzione
tra
tutela
e
valorizzazione
dei beni culturali resta, peraltro, presente nell'impostazione
del nuovo Codice
e allineata
alla nuova
formulazione del
Titolo V della
Costituzione:
che distingue tra
i
compiti di
tutela, assegnati allo Stato, e quelli. di
valorizzazione,
affidati (giusta quanto affermato dalla
giurisprudenza costituzionale) alla legislazione
concorrente dello Stato e delle regioni, ma secondo
il regime proprietario, per cui sarà lo Stato a
dettare norme sulla valorizzazione dei propri beni.
Con questa soluzione la nominalistica (e
illusoria) distinzione tra tutela e valorizzazione
(recepita nell’art. 117 novellato della
Costituzione) viene astrattamente mantenuta ed in
concreto superata avendo riguardo al regime
proprietario del bene culturale (e cioè ad un
profilo reale che la legislazione degli anni novanta
aveva messo in sordina).
Del resto è evidente che
gli obiettivi principali indicati nel Codice
come
essenziali per la valorizzazione
- conoscenza e
fruizione del patrimonio culturale;
promozione e
sostegno
degli. interventi di conservazione
-
sono obiettivi
che rientrano anche nell'ambito di un'azione di
tutela e che, quindi, rischiano più
di stimolare la
conflittualità tra Stato e regioni che di
favorire 1' intesa
e la collaborazione suggerita dalle stesse
norme del Codice.
L’impostazione del
rapporto tra
Stato
e Regioni, per
quel
che
riguarda l'ambito degli interventi per i beni
culturali e
ambientali, sulla imperfetta dicotomia tutela /
collaborazione, ha fatto scartare una
soluzione (preconizzata da una linea di
giurisprudenza costituzionale oggi recessiva) che
non separa
tutela e
valorizzazione, ma che,
assegna
ugualmente un ruolo importante alle Regioni
nel senso di attribuire ad esse, anche
in materia di
tutela e di catalogazione, funzioni
integrative di
quelle dello Stato per tutti quei beni che,
pur non avendo
partitolare
rilevanza
sul
piano nazionale,
possono però averlo in rapporto
alle vicende
della
storia e della
cultura
locale (bene culturale d’interesse locale).
In terzo luogo il Codice sancisce la
limitazione
della gestione pubblica dei musei e, in generale,
dei servizi di fruizione dei beni culturali di
proprietà pubblica, e ricorso a gestori “esterni”;
La gestione privatizzata dei beni culturali
pubblici – che, di per sé, non esaurisce la gamma
delle funzioni di sussidierietà orizzontale
nel settore dei beni culturali e men che mai la ben
più ampia problematica del “pluralismo culturale”
- consiste nel restringimento dei compiti
esercitati dall’amministrazione pubblica per
quel che riguarda la gestione dei musei di
proprietà dello Stato e, correlativamente, nella
possibilità di
affidamento "a terzí"
sia della
gestione sia dell'uso dei beni di proprietà
pubblica, per la
loro valorizzazione.
E’ stato, in primo luogo, osservato che – a parte
per le
insufficienti
garanzie qualitative
richieste
agli affidatari per una buona gestione dei musei -
l'applicazione
di questa linea è destinata ad accentuare in modo
irreparabile
la separazione
tra
il
singolo
bene
(in particolare il
museo o l’area archeologica) e la tutela e
valorizzazione
del complesso del patrimonio
culturale
distribuito
sul territorio.
La
privatizzazione della gestione
e dell'uso dei beni (e innanzi tutto dei Musei),
prevista dall'art.
115 del nuovo
Codice, appare quindi destinata ì a creare
una
cesura
fra
realtà culturali
in
sé
omogenee, quali quelle raccolte nel Museo
e quelle
omologhe distribuite nel territorio circostante.
E' stato, altresì, rilevato – sotto una prospettiva
più ampia – che l'affiorare,
nel nuovo Codice,
di una
logica mercantile
nell’impostazione
dei
problemi
riguardanti i beni culturali ha radici nei
decenni passati e
spinge
a valutare
le
opere
d'arte e
le
testimonianze
culturali
in
termini monetari,
ossia
in
base al loro
presumibile
rendimento economico. Mentre
i beni culturali, da salvaguardare
con ogni cura nella loro
integrità e
unicità,
possono diventare fonte (indiretta) di reddito
solo attraverso il richiamo turistico e altre
attività indotte.
Anche nel settore dei beni culturali – quando, come
oggi, è stato posto l’accento, con enfasi eccessiva
sul possibile rendimento economico
dei servizi di gestione dei beni; o quando
si è privilegiato
"l'evento", il museo, la mostra, rispetto alla cura
dell’insieme dei beni culturali di un territorio,
che è certamente più impegnativa e meno appariscente;
o quando si è scelto i puntare sulla "valorizzazione"
come possibile fonte di reddito – si tende ad
affermare la stessa ideologia
neoliberista e privatizzante che (come
in
altri Paesi
europei) ha determinato,
nel periodo
più
recente, lo smantellamento del settore pubblico
dell’economia.
Per converso l’accento, implicitamente posto nel
Codice, sull’efficienza gestionale (della
fruizione e valorizzazione) realizzabile con forme
indirette (concessioni a privati o fondazioni
miste), ma anche con formule organizzative di
maggiore autonomia amministrativa, non può essere
valutata solo negativamente, perché vuole superare
le vischiosità e taluni sprechi di una conduzione
piattamente amministrativa dei servizi museali e
bibliotecari che – come quella del settore
scolastico o dei servizi sociali pubblici – è, in
molta parte, conseguenza delle rigidità ed
ipergarantismi del rapporto di impiego pubblico (e
della stessa dirigenza statale contrattualizzata),
della spezzettatura procedimentale degli interventi
manutentivi, di restauro o di innovazione
espositiva, nonché del perverso incrocio di
sovrapposti livelli politici e aggrovigliate
competenze amministrative.
In quarto luogo il Codice segna l’ abbandono
del
concetto
di “bene ambientale"
per la nozione di “paesaggio”, correlato alla
pianificazione urbanistica.
Il Codice del 2004 segna l’abbandono del termine e
del concetto di “bene ambientale”, e il riuso del
termine “paesaggio” (di cui all’art. 9 Cost.), e,
dal punto di vista sostanziale,
la rinuncia
a fissare per
legge (come per prima fece la legge Galasso n. 431
del 1985) un vincolo di tutela a protezione dei
fondamentali elementi costitutivi
del
paesaggio,
quali le coste marine o
lacustri, i
fiumi,
le
montagne, le
foreste, i
parchi naturali, i ghiacciai, ecc.
Tali
vincoli vengono infatti prorogati dal
Codice solo
fino all'approvazione dei piani
paesaggistici: i
quali non soltanto
possono
prevedere diversi livelli di
tutela per le
varie parti delle aree
ma
possono modificare gli effetti dell'inclusione
di un'area in una delle categorie di bene paesistico
e quindi, in pratica,
anche
annullare i
vincoli
di tutela (art. 149 Codice beni culturali
modificato con D.Lgs. 24 marzo 2006 n. 157).
La revisione dei vincoli
fissati dalla
legge
n. 431 del 1985 è
la
logica
conseguenza
della
rigida
separazione
fra beni
culturali
e beni
paesaggistici e
dell'abbandono
del
concetto
di “bene ambientale"
come
bene che - per il suo
intrinseco
valore -
deve essere oggetto
di una tutela
dello
stesso livello
di quella di cui sono oggetto i beni
culturali.
Si deve, infine, segnalare che nel nuovo Codice
manca qualsiasi riferimento
a beni
ambientali che sono invece essenziali nel
paesaggio urbano
quali i "centri storici" e che sono,
come tali, tutelati in altri ordinamenti europei.
1.4.3.
Il riordino della legislazione sulle attività
culturali e i ritocchi al Codice dei beni culturali
e del paesaggio (2004-2007)
Al “Codice dei beni culturali e del paesaggio” (D.
Lgs. n. 42 del 2004) e ai provvedimenti legislativi
e regolamentari di riorganizzazione del Ministero
per i beni e le attività culturali
(rispettivamente, D.Lgs. 8 gennaio 2004 n. 3 e
D.P.R. 8 giugno 2004 n. 173) si accompagnano, nello
stesso anno, altri provvedimenti in materia di
beni culturali, che completano il disegno del
Ministro Urbani:
- D. Lgs. 22 gennaio 2004 n. 30, di modifica alla
disciplina degli appalti di lavori pubblici
concernenti i beni culturali;
- D. Min. Beni e attività culturali (di concerto
con l’Agenzia del Demanio) 6 febbraio 2004,
concernente criteri e modalità di “verifica”
dell’interesse culturale di beni immobiliari di
proprietà pubblica, relativamente alla sussistenza
dell’interesse artistico, storico, archeologico ed
etnoantropologico (di cui all’art. 12 del Codice dei
Beni Culturali).
Altri interventi legislativi d’iniziativa
governativa concernenti le attività culturali
curate dal Ministero si rivolgono allo spettacolo,
in generale, e alla cinematografia in
particolare:
- D. Lgs. 22 gennaio 2004 n. 28 di “Riforma della
disciplina in materia di attività cinematografiche”
che propone un testo unico delle disposizioni in
materia e che vuole razionalizzare il finanziamento
alla produzione e semplificare le procedure di
erogazione;
- D. Lgs. 22 gennaio 2004 n. 38 di riordino della
“Fondazione sperimentale di cinematografia”.
Relativamente al teatro (per il quale, già
nel 2003, è stato adottato il D.M. 27 febbraio che
semplifica l’erogazione dei finanziamenti) con D.
Lgs. 22 gennaio 2004 n. 33 viene parzialmente
modificato il D. Lgs. n. 20 del 1998 che aveva
trasformato in fondazione di diritto privato
l’Istituto Nazionale per il dramma antico, con sede
in Siracusa.
Riguardo alla musica gli artt. 3 bis e 3 ter
del D. L. n. 72 del 2004, così come inseriti dalla
legge di conversione 21 maggio 2004 n. 128,
riformano ulteriormente le Fondazioni
lirico-sinfoniche facilitando l’ingresso di soci
privati (con apporto annuo non inferiore all’otto
per cento) e modificando i criteri di assegnazione
dei contributi dal Fondo Unico per lo Spettacolo,
istituito dalla legge n. 163 del 1985.
Sempre il D.L. 22 marzo 2004 n. 72, convertito con
modificazioni dalla Legge 21 maggio 2004 n. 128
adotta misure di contrasto alla diffusione
telematica abusiva di opere cinematografiche e
musicali; misure consistenti nella previsione
di nuovi illeciti (penali e amministrativi) a carico
sia di coloro che procedono alla diffusione abusiva
sia dei fornitori di connettività e di servizi
internet.
Con la legge 15 aprile 2004 n. 106 vengono rinnovate
le norme della legge 2 febbraio 1939 n. 374 sulla
consegna obbligatoria degli stampati, introducendo
il “deposito legale” di ogni tipo di documento
(stampati, fotografie e film, documenti sonori e
video, documenti diffusi su supporto informatico e
tramite rete informatica) non più per preminenti
esigenze di polizia della stampa, ma al fine di
conservare “la memoria della cultura e della vita
sociale italiana”.
Con il “deposito legale” di tutte le opere
immateriali la nuova legge si propone
l’obiettivo di raccogliere non solo la produzione
editoriale nazionale (documenti cartacei
tradizionali conservati nelle biblioteche) ma di
acquisire e conservare anche i documenti digitali,
sia su supporto fisico sia diffusi su rete
informatica.
La legge 15 novembre 2005 n. 239 (Disposizioni in
materia di spettacolo) interviene dopo la mancata
conversione del D. L. 17 agosto 2005 n. 164 in
materia di attività cinematografica e di beni
culturali e si limita a stabilire che i contributi
alle attività dello spettacolo dal vivo sono
adottati d’intesa con la Conferenza unificata
Stato – Regioni – Autonomie locali.
Il D. M. Beni e attività culturali 28 settembre
2005 n. 222 (di modifica del D. M. 11 dicembre 1997
n. 507 sul biglietto d’ingresso nei musei, monumenti
e scavi) enuclea i “servizi di biglietteria” e
stabilisce le relative modalità di affidamento e di
gestione. In particolare generalizza la
possibilità di abbinare detto biglietto d’ingresso
con l’accesso ad altri siti culturali ovvero con la
fruizione di attività anche non espositive.
Nel primo semestre del 2006, e cioè prima della fine
della XIV legislature repubblicana, il disegno, di
tenore moderatamente liberista, è completato e
rettificato dal Ministro Buttiglione – oltrechè con
le disposizioni correttive e integrative del
Codice dei beni culturali e del paesaggio
(D. Lgs. nn. 156 e n. 157 del 2006) – con il
“Riassetto delle scuole di specializzazione nel
settore della tutela, gestione e valorizzazione del
patrimonio culturale” (D. Interministeriale 31
gennaio 2006), con le “Misure speciali di tutela e
fruizione dei siti italiani inseriti nella lista del
patrimonio mondiale dell’Unesco” (legge 20 febbraio
2006 n. 77) e con il “Regolamento recante norme in
materia di deposito legale dei documenti di
interesse culturale destinati all’uso pubblico”
(D.P.R. 3 maggio 2006 n. 252, attuativo della legge
n. 106 del 2004).
La correzione e l’integrazione del Codice dei
beni culturali e del paesaggio si realizza con due
distinti decreti legislativi - D. Lgs. 24 marzo
2006 n. 156, relativo ai beni culturali e
D.Lgs. 24 marzo 2006 n. 157, relativo al
paesaggio – in palese rappresentazione della
difficoltà concettuale e tecnico-legislativa di
raccogliere, sotto vere disposizioni generali e
articolate, comuni e non meramente nominalistiche,
le cose storico-artistiche e il paesaggio.
Le maggiori correzioni realizzate sul versante dei
beni culturali (a parte l’eliminazione
dell’istituto del silenzio-assenso in materia di
“verifica” dell’interesse culturale dei beni di
appartenenza pubblica) concernono la riscrittura
delle disposizioni in materia di “valorizzazione”
dei beni culturali: - conferma della giurisprudenza
costituzionale sulla ripartizione tra Stato e
Regioni della competenza sulla base del criterio
dominicale (in pratica: non c’è competenza
legislativa regionale, neppure a livello di
dettaglio, sulla valorizzazione dei beni presenti
negli istituti e luoghi della cultura di
appartenenza statale); - partizione in tre fasi
della funzione di valorizzazione: I. individuazione
della strategia, con raccordo diretto tra Stato,
Regioni e autonomie locali (in mancanza di accordo
vige il principio di effettiva disponibilità del
bene); II. programmazione, eventualmente affidata a
consorzi partecipabili dai privati proprietari di
beni culturali coinvolti e figure soggettive private
senza attività lucrative [fondazioni bancarie o
altre]; III. attuazione della valorizzazione
eventualmente affidabile mediante concessione a
terzi.
Viene, altresì, ridisegnata la gestione dei beni
culturali pubblici, attraverso la semplificazione e
razionalizzazione dei relativi modelli che vengono
ridotti a due: la gestione in forma diretta e quella
in forma indiretta attuata tramite concessione a
terzi regolata da contratto di servizio (in passato
preclusa agli enti locali quando non sussistessero
ragioni tecnico-economiche).
Con la XV legislatura repubblicana ed il nuovo
Governo si pongono le premesse (art. 15 del D.L. 3
ottobre 2006 n. 262, così come convertito, con
modificazioni, nella legge 24 novembre 2006 n. 286)
per la restaurazione dell’assetto organizzativo
del Ministero per i beni e le attività culturali
incentrato sulla resuscitata figura del Segretario
generale (istituita con D.Lgs. n. 368 del 1998 e
soppressa dal D.Lgs. 8 gennaio 2004 n. 3) e si
ri-trasferiscono alla Presidenza del Consiglio le
funzioni in materia di sport ed i relativi
uffici già attribuiti al Ministero per i beni e le
attività culturali (art. 1, c. 19 e 22 del D.L. 18
maggio 1981 n. 181, come convertito, con
modificazioni, nella legge 17 luglio 2006 n. 233).
Nel 2007 il ministro Rutelli – pur prevalentemente
impegnato sul fronte del recupero dei beni
archeologici clandestinamente ritrovati nel
territorio e nel mare nazionale ed illegittimamente
esportati e venduti a grandi musei, nonché sul
fronte dello sviluppo del turismo culturale- adotta
provvedimenti di riordino degli organi consultivi
del Ministero (D.P.R. 12 gennaio 2007 n. 2 e D.P.R.
14 maggio 2007 n. 89) e vara il nuovo regolamento di
organizzazione del ministero, che sancisce
l’abbandono dei Dipartimenti e il rafforzamento
delle Direzioni regionali.
La vicenda complessiva delle “riforme” del settore
organizzativo dei beni culturali (a partire dal 1975
e sino al 2007) mostra un percorso frammentato, con
ripetute innovazioni di vertice dell’apparato
pubblico, modifiche e ripensamenti, spesso
nominalistici, acuiti dalla ormai decennale
ambiguità della distribuzione di competenze tra
Stato e Regioni e dal sostanziale ripiegamento delle
strutture amministrative tradizionali, non
effettivamente sostituite dalla invocata
sussidiarietà orizzontale dei privati.

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